Il Prof. Bernard Lewis (Londra 1916), Emerito di studi Mediorientali alla Princeton University, ha dato alle stampe questo pregevole saggio - frutto di diverse conferenze tenute alla fine degli anni ’90 - dopo che l’evento delle Twin Towers aveva sconvolto il mondo. Tuttavia, nonostante sia il frutto di studi e riflessioni precedenti all’11 settembre, la sua validità rimane inalterata. Si potrebbe anzi sostenere che le riflessioni di Lewis acquistano oggi maggior peso, proprio perché più urgente si è alzata la richiesta di riflettere sul possibile Clash of Civilizations. Una conoscenza sempre maggiore del mondo mediorientale, delle sue potenzialità come delle sue “tare”, rimane la piattaforma da cui partire per cercare, e forse trovare, strade capaci di dare speranze di pace. Dopo l’11 settembre l’appello diventa pressante non solo per quel lembo martoriato di terra dove si confrontano il “rappresentante” della civiltà occidentale, qual è Israele, ed una delle espressioni più “arrabbiate” dell’Islam, ma per lo stesso dialogo e confronto tra le due civiltà. In questo senso, l’anziano professore mediorientalista offre numerosi spunti da cui poter partire per approfondire poi la quaestio. Il suo saggio, di taglio prettamente storico, consente infatti al lettore di avere uno spaccato del confronto che si è via via determinato tra Islam e Cristianità (poi Occidente). Lewis evidenzia in apertura come nel periodo precedente al secondo assedio di Vienna (1683) - che poi culminerà con il Trattato di Carlowitz (1699), dove per la prima volta l’Islam dovrà fare i conti con una sconfitta – gli epigoni della religione del Profeta avevano un atteggiamento di profonda indifferenza nei confronti del mondo cristiano, a motivo di una lettura “religiosa” della storia e della vita per cui, da parte degli “infedeli”, non poteva sostanzialmente venire nulla di buono. È più o meno del 1718 il primo documento ottomano che asserisce una certa superiorità cristiana nei confronti di quella musulmana, anche se circoscritta all’ambito delle tattiche militari nella condotta della guerra. Per la prima volta in quel periodo, insomma, comincia a passare l’interesse per una cultura diversa dalla quale apprendere e in parte accogliere l’idea stessa di modernizzazione, non limitandosi più alla sola imitazione di quanto sarebbe servito allo scopo di combatterli più efficacemente. Un ulteriore passaggio è la conoscenza delle lingue occidentali. Anche in questo caso, osserviamo che solo in periodi recenti si è manifestato un tale desiderio. Per molti secoli, a fronte di una presenza costante di ambasciatori occidentali presso le Corti mediorientali, i diplomatici ottomani non erano stanziali ma la loro presenza presso le corti europee era determinata da specifiche motivazioni. Questo comportava una sostanziale “non conoscenza” degli usi e delle abitudini del mondo cristiano. È solo del 1793 la prima sede stabile di ambasciate ottomane a Vienna, Berlino, San Pietroburgo e Parigi. “Un processo di modernizzazione consapevole e deliberato richiedeva, per la prima volta, un contatto più stretto e prolungato con gli occidentali, e costringeva un numero crescente di mediorientali a imparare le già tanto disprezzate lingue europee e a sopportare lunghi periodi di residenza nelle città d’Europa”. Tuttavia la conoscenza delle lingue europee, escluso l’ambito diplomatico, rimane estremamente circoscritta. Viceversa, già dal XVI secolo erano presenti in Europa cattedre di arabo e persiano. Numerose erano le occasioni anche per lo studio del turco. Una svariata quantità di libri occidentali trattavano della storia, della cultura, della religione e delle condizioni di vita del mondo islamico. Il vantaggio dei cristiani risiedeva nel fatto che in terra islamica fossero presenti numerose comunità cristiane, come in Turchia, Egitto, Siria, ma anche Iraq ed Iran. I visitatori musulmani, viceversa, non avevano (allora, ndr) appoggi paragonabili in Europa. L’interesse per l’Occidente crebbe in occasione della Rivoluzione Francese, perché questo evento venne percepito come sostanzialmente anticristiano. Una volta depotenziato l’Occidente dalla sua specifica valenza religiosa, in quanto diventato “laico” (termine per certi aspetti intraducibile nella cultura musulmana, se non con “ateo”, o proponendolo come termine occidentale), è diventato possibile per l’Islam poter attingere più liberamente ai suoi processi di modernizzazione, ma ancora una volta solo in funzione strumentale, e non come espressione di un profondo cambiamento dell’orizzonte di senso. Le ulteriori sconfitte avvenute nel corso degli ultimi due secoli e la supremazia schiacciante che l’Occidente ha acquisito nei confronti dell’Islam, ha portato sempre più persone del mondo musulmano a porsi, in modo ricorrente, una domanda “chi ci ha fatto tutto questo?”. La risposta, che via via si è fatta sempre più insistente e che ha alimentato i gruppi tradizionalisti e/o integralisti, è stata individuata nel fatto di aver perso le radici islamiche e di essersi fatti occidentalizzare, prima attraverso il colonialismo e poi attraverso la supremazia tecnica e culturale. Ma la domanda che alcuni, pochi in verità ma in numero sempre crescente, si pongono oggi, decisamente più corretta, è secondo l’eminente studioso, “in che cosa abbiamo sbagliato?”. Il punto chiave, secondo Lewis, è che se le società islamiche hanno comunque provato a modernizzarsi, perdendo quella naturale protervia derivante da una presunta supremazia teologica ed acquisendo in modo particolare la tecnologia e alcuni costumi occidentali, di fatto non si sono mai occidentalizzate. Attualmente, osserva Lewis, anche i fondamentalisti vogliono la modernizzazione ma combattono l’occidentalizzazione, intesa come emancipazione della donna, ovvero pratica della libertà. “È proprio la mancanza di libertà – libertà della mente, non costretta né indottrinata, di mettere in dubbio, indagare, parlare; libertà dell’economia dalla corruzione e dalla cattiva gestione dilagante; libertà delle donne dall’oppressione maschile; libertà dei cittadini dalla tirannia - che sta alla radice dei tanti mali del mondo musulmano. Ma la strada che porta alla democrazia, come l’esperienza occidentale dimostra ampiamente, è lunga e difficile, piena di ostacoli e trabocchetti. Se poi i popoli del Medio Oriente continueranno sulla strada attuale, l’attentatore suicida potrebbe diventare una metafora del loro destino, e non ci sarebbe via d’uscita dalla spirale discendente di odio e rancore. (…) Se riusciranno a smetterla con le lagne e il vittimismo (…) potranno ancora una volta fare del Medio Oriente, nell’epoca moderna come nell’antichità e nel Medio Evo, un importante centro di civiltà. Per il momento, la scelta è soltanto loro”.
In conclusione è bene ricordare che Lewis è a tutt’oggi uno degli studiosi più ascoltati dai Ministeri della Difesa e degli Esteri americani, oltre che dalla stessa Casa Bianca. Nel libro del docente di religione ebraica, pertanto, si può probabilmente vedere in contro luce proprio la linea strategica seguita dal Governo americano nel cercare di esportare, nel mondo islamico, quello che appare il loro limite più “insopportabile”: la pratica democratica. Inoltre, in un’intervista alla Stampa del febbraio 2002 rilasciata dal professore di Princeton, si coglie anche un altro aspetto che sembra poter aver influenzato l’Amministrazione Bush, “i valori storici fondamentali del mondo musulmano – ha detto Lewis – sono: fermezza, forza e coraggio. I valori della tolleranza e della magnanimità sono molto ammirati nell’Islam, ma una posizione di forza è condizione ineliminabile per farne uso” Alla domanda di Fiamma Nirenstein su quando finirà questo scontro globale tra le due civiltà, l’anziano professore ha risposto “voglio essere positivo: io spero molto nell’incoraggiamento che gli Usa possono dare alla nascita e al consolidamento di regimi democratici. L’Occidente ha tradito l’opposizione irachena, ha tradito anche quella iraniana, ha abbandonato i dissenzienti nei Paesi Arabi. E che dire dell’Arabia Saudita, il migliore amico degli Usa, i cui legami col terrorismo sono purtroppo assai estesi? È tempo di guardare in faccia questi regimi e il pericolo che comportano. Guai se non saremo forti”.
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